Viale Monastir, la rotta delle schiave
15 Giugno 2007Manuela Scroccu
Le africane hanno tanti nomi, perché nei loro paesi averne tanti è segno di buona fortuna, e abiti succinti che non riparano dalle intemperie delle notti invernali e dagli sguardi dei clienti. Le ragazze rumene, polacche e croate portano lunghi stivali e gonne cortissime. Nina ha gambe lunghe e grandi occhi verdi, luminosi e appena velati dalla malinconia di chi, a 22 anni, ha conosciuto il dolore e l’umiliazione di essere trattata e venduta come un oggetto. Nel suo paese, uno dei tanti dell’Est Europa ridotti in poltiglia mal rigurgitata dal crollo dell’Unione Sovietica, studiava economia. Quando l’ho conosciuta, ormai libera dai suoi sfruttatori, si preparava a lasciare la Sardegna per iniziare una nuova vita. Alle spalle si lasciava la strada e la verità: quest’ultima, ricostruita in un processo che, attraverso la sua coraggiosa testimonianza ha consentito di sgominare una pericolosa organizzazione criminale che importava dall’Est giovani ragazze per sfruttarle nel fiorente mercato della prostituzione.
Becky, invece, è venuta da Benin City con un passaporto nigeriano falso. Occhi neri e duri di chi, acquistata per pochi dollari direttamente nel proprio villaggio, è stata spedita come un pacco postale fino a Roma, poi Napoli, infine imbarcata sulla Tirrenia per Cagliari. Dopo sono bastati pochi chilometri, quelli che separano il porto di Cagliari da viale Monastir. Pochi chilometri per segnare la distanza che separa la speranza di una vita migliore dal precipitare nell’abisso dello sfruttamento della prostituzione. Ha scalato la gerarchia sociale, Becky, diventando “madame” quindi, a sua volta, sfruttatrice di altra carne umana trasportata a buon prezzo fino alle squallide strade delle nostre periferie. Dal carcere, dove si trova e sta scontando la sua pena, probabilmente ripensa alla sua vita e non riesce a comprendere come un giudice l’abbia potuta condannare per aver solo cercato di sopravvivere.
Gli occhi di Alina, invece, quelli non li so descrivere: non si vede il colore dalle foto scattate dalla polizia scientifica. Lei non è stata fortunata: i suoi 18 anni, i suoi sogni e le sue speranze sono stati spezzati una sera di luglio. Seviziata a morte, il cadavere nascosto in un frigorifero. Il suo aguzzino, il fidanzato che l’aveva portata in Sardegna e l’aveva costretta a prostituirsi, è stato processato e condannato in contumacia. Non l’hanno mai trovato.
Nina, Becky, Alina. Storie comuni a quelle di molte altre: portate in Italia con la promessa di un lavoro, oppure spinte dalla necessità di lasciare paesi devastati dalla guerra o dalla miseria, sbattute sulla strada una volta sbarcate sul suolo italico. Storie simili, diversa è solo la fine.
Nina si è salvata perché ha pianto. Ha pianto, raccontando la sua storia: prima ad un cliente, poi alla proprietaria dello squallido alberghetto dove la costringevano a vivere, poi alla suora del centro di accoglienza che l’ha aiutata a nascondersi, infine al suo avvocato e al pubblico ministero. Per lei il sistema ha funzionato. Ha funzionato una legislazione tra le più efficaci d’Europa, che non solo ha ridefinito (con la legge 228/2003) le fattispecie giuridiche che puniscono la riduzione o il mantenimento in schiavitù o servitù ai fini dello sfruttamento sessuale e la tratta di persone a questo scopo, ma ha predisposto una serie di strumenti di natura sia giuridica (speciali programmi di protezione per le vittime del “trafficking”) che economica (come il fondo per le misure anti tratta, istituito dall’art. 13 legge 228/2003 presso la Presidenza del Consiglio che si occupa di finanziare i programmi di assistenza alle vittime dello sfruttamento).
Becky e Alina, invece, pur nella diversità delle loro storie, fanno parte della categoria delle “sommerse”. Il loro destino è stato diverso, come quello di tanti altre giovani donne, nel migliore dei casi in prigione, trasformate anch’esse in aguzzine; nel peggiore, una vita segnata dalla paura di essere in un paese straniero, paura del freddo, della polizia, della notte, dei clienti, degli sfruttatori. Fino a sparire nel nulla, nella consapevolezza, forse, di essere state, per i propri aguzzini, merce redditizia ma deteriorabile e quindi facilmente sostituibile.
Tale fenomeno complesso, a fronte di una domanda di sesso a pagamento sempre crescente e differenziata, è strettamente intrecciato con una criminalità organizzata feroce e senza scrupoli, che non esita a servirsi di forme di coercizione crudeli per assicurarsi un ricambio sempre fresco di nuove schiave disponibili, per lo più immigrate quasi sempre fatte entrare clandestinamente.
Eppure, oggi non fanno più notizia: sono figure ormai di contorno delle grigie periferie urbane delle nostre città. Le retate e gli arresti, ormai, si meritano un trafiletto nelle pagine di cronaca spicciola. Una parte di loro vive in condizioni di sfruttamento estremo. Molte altre, invisibili ai più, lavorano in piccoli appartamenti, nei night club, negli alberghi. Intrappolate dai debiti contratti per venire in Italia, vengono sottoposte a ricatti e pressioni, sia fisiche che psicologiche, dai propri sfruttatori.
Sembra che la regola sia quella delle “sommerse” e che invece le “salvate” siano un’eccezione.
Con la carne umana si fanno ottimi guadagni: da sempre. Il resto lo fanno un mercato globale sempre più aggressivo e senza regole e, soprattutto, le perduranti ingiustizie del mondo e la povertà: portatrici efficienti e mai stanche di disgregazione sociale e sopraffazione dei deboli.
Nulla a che vedere, quindi, con il moralismo benpensante del buon padre di famiglia che “non può più portare la famigliola felice a fare una passeggiata la sera”. Se la prostituzione non è un reato, nel nostro ordinamento, e i percorsi di vita che portano ad esercitarla sono molteplici e complessi, non riconducibili certamente a sterili giudizi morali o riduttive classificazioni, parlare di sfruttamento della prostituzione, invece, significa puntare un faro contro una nuova schiavitù, una moderna tratta di schiavi, che attraversa i continenti fino al cortile di casa nostra. Significa indagare un fenomeno che interessa nel profondo il tema della salvaguardia dei diritti delle donne e impegnarsi a contrastare questa “rinnovata” schiavitù femminile, cercare di dare delle risposte a quello che, molto spesso, non rappresenta “il mestiere più antico del mondo” ma “la discriminazione più antica del mondo”.