Archeologia del futuro, riforme del passato
1 Novembre 2007
La navicella che venne dal futuro
Marcello Madau
La notizia archeologica è delle più clamorose: una nave in legno, di grandi dimensioni, proviene dagli scavi condotti nell’antica Costa Smeralda. Sembrerebbe sia stata costruita da un giovane scultore sardo per uno dei più facoltosi coloni dell’epoca: Silvio Berlusconi? Pare proprio di sì. Solo l’archeologia può dare una risposta corretta e permetterne un inquadramento coerente. Un antefatto: più di tre anni fa (La Nuova Sardegna, 19 agosto 2004) entrammo in possesso di uno straordinario diario di scavo proveniente dal 2400 circa dopo Cristo che documentava la prima individuazione, dandone notizia preliminare, dell’antico sito di Villa Certosia, nella Sardegna nord-orientale: un allineamento di menhir, un teatro di maniera ellenistica e un edificio a forma di torre collegati ad un’ampia villa d’ozio con numerosi ambienti, che forse dava il nome al sito scomparso e ritrovato. Di grande interesse per tipologia e datazione i materiali mobili, come il mucchietto d’aglio carbonizzato con l’iscrizione ‘condimenta comunista’, frammenti di un CD con l’iscrizione Apic (.…)a 2004, laterizi con marchio di cava a serpentello con 5 preceduti dalla parola Arcore (forse vulgata autarchica del termine inglese hardcore). A questi materiali epigrafici si aggiunga il graffito (con ductus incerto) ‘Romulus e Remulus’, ora ricollocato nella ‘grotta di Pinocchio’, e ciò che resta di un lungo ‘pabilus’ della polemistica coeva, del quale sono leggibili due frasi: Villa Cert (…) e “.. allestimento scenografico del cactus”.
Ma ora è la nuova serie di ritrovamenti che si impone all’attenzione della comunità scientifica e degli appassionati, in particolare il gigantesco modellino ligneo di imbarcazione con protome taurina ed una magnifica palma pietrificata, rinvenuti in perfetto stato di conservazione fra l’approdo ed il teatro (Villa Certosia-2, in Archaeological Return Future, 2403, 2-54): essi confermano la prima relazione preliminare (Villa Certosia-1, in Archaeological, cit, 2400, 3-28), soprattutto nell’interpretazione che venne data; permettono precisazioni cronologiche e stringenti confronti tra manufatti e fonti scritte grazie ad un quaternulus (il felice termine in Umberto Eco, Diario minimo, Bompiani, Milano 1992, 17 ss.) che riporta un articolo apparso sulla ‘Nuova Sardegna’ del 28 ottobre 2007 dal titolo ‘Una mia scultura a Villa Certosa’, p. 5. Vi è citato l’autore dei due mirabili manufatti, un umile giardiniere di Ozieri che costruì e vendette al dominus di Villa Certosia “una grande nave Shardana” e “una palma in trachite”.
La sagoma dell’imbarcazione di maniera nuragica, che si aggiunge nella storia dell’archeologia sarda alle mirabili navi romane di Olbia, commuove e porge un nuovo contributo al tema delle persistenze tipologiche, dimostrando come un legame memoriale possa essere forte ed eguagliato solo da quello dell’industria culturale del sardokitsch. E la stessa metafora del vulcano – che pare allietasse gli spettatori del teatro certosino – non manca di riportare in qualche modo, e con eguale rapporto fra tradizione e mercato, al mito dello tsunami cretese e di converso a quello sardo-atlantideo. Ecco allora che potremo interpretare la grande barca lignea come un toccante rifugio delle coppie di tutto il creato: per ricominciare un’altra volta, da capo.
Carlo Ginsburg in ‘Miti, emblemi, spie’ (Einaudi, Torino 1992), esaltandone la funzione, ricordava come l’archeologia si muova nella sostanza con processi indiziari, e che tanti indizi, alla fine, possono costituire una prova (anche ciò, vorremmo aggiungere, riporta all’antico dominus di Villa Certosia). E gli archeologi sanno quanto all’argumentum ex silentio sia necessaria la prudenza: un nuovo ritrovamento può, squarciando l’oblio, ribaltare le precedenti conoscenze. Ma anche confermarle in maniera definitiva con il peso di una documentazione convincente. Allora va detto che i nuovi dati sostanziano in completezza, se ve n’era ancora bisogno, l’inquadramento della prima relazione preliminare:
“Vi è un insieme inedito di imitazioni da modelli mal compresi, tutti afferenti alla sfera dell’apparire, da leggere come la persistenza, su nuova scala, di modalità autocelebrative del potere conosciute sin da tempi antichissimi nei piccoli dispotismi a basso profilo culturale, e sopravvivenze assai arcaiche di superstizioni, testimoniate con esemplare chiarezza dalle due varianti di amuleti a forma di mano e dal mucchio di aglio carbonizzato.”
Gli elementi che ora si aggiungono al già stupefacente complesso archeologico rinnovano un’antica lezione: la natura e la collocazione di un reperto, e soprattutto di un contesto, indicano la qualità delle botteghe produttive, spesso configurata, e talora adattatasi per necessità, alla qualità della committenza. E quanto la prospettiva storica ampia fornita dall’archeologia consenta di dare collocazione e inquadramento storico distaccato e stringente ad eventi quotidiani solo apparentemente banali.
Stato e Regione. Accorpo accorpo
Il temuto accorpamento delle due soprintendenze archeologiche sarde di Cagliari e Oristano e di Sassari e Nuoro (si veda nel numero di Luglio la nostra denuncia in Traballare sulla tutela e soprattutto l’appello di decine di archeologi e funzionari delle soprintendenze archeologiche) è stato firmato dal Consiglio dei Ministri due giorni fa, all’interno del nuovo Regolamento di organizzazione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali. La misura è all’interno di altre forti criticità sulle quali ci ripromettiamo – stiamo per pubblicare il numero on-line e non è stato possibile rintracciare il testo definitivo – di tornare nei prossimi numeri.
Si tratta di un provvedimento che desta forte preoccupazione: in che modo ora sarà garantita la necessità di territorializzazione e potenziamento della tutela in Sardegna, connaturata alla natura stessa del suo patrimonio? E’ una misura che mette a rischio un’imponente tessitura monumentale: lo hanno persino sottolineano, in un recente documento critico sul ‘Regolamento’, l’Associazione Italiana Biblioteche, l’Associazione “Ranuccio Bianchi Bandinelli”, Assotecnici, l’Associazione Italiana per le Scienze Etno-Antropologiche e la Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici, denunciando come la politica dell’accorpamento colpisca il sistema tutela del patrimonio archeologico, ma non quello del patrimonio storico-artistico e architettonico
Vogliamo credere che anche chi saluterà positivamente questo passaggio come possibile premessa al trasferimento di competenze dallo Stato alla Regione Autonoma della Sardegna sia e debba essere preoccupato di non dover ricevere un patrimonio indebolito da un ‘vuoto’ di tutela come quello che potrebbe conseguire non tanto e solo a questa misura, ma all’ideologia più generale che sembra prevalere nell’azione del Ministero dei beni e delle attività culturali: forte e accentrata aziendalizzazione, indebolimento qualitativo dei quadri dirigenti, mortificazione delle professionalità esistenti, incapacità di cogliere la reticolarità del patrimonio archeologico sardo e nazionale. Sembra in atto una strategia concettualmente governata dai vecchi criteri idealistici della ‘rarità e del pregio’.
Anche nel campo dei beni archeologici, in definitiva, si renderà necessaria una battaglia critica che, recependo le necessarie modernizzazioni e il superamento di micro-interessi storici un po’ feudali (peraltro in continua e forte tensione con altre competenze), non ceda sul piano della tutela, esalti le risorse del lavoro consolidate (funzionari, quadri e lavoratori della tutela), disconosciute (archeologi come professionisti e non come ‘collaboratori atipici’) e in via di formazione (le nuove generazioni di studenti); che chieda e proponga da subito precise garanzie e misure affinché tutta la rete del patrimonio archeologico sardo non vada allo sbaraglio.