Vita e destino della cultura sarda
16 Gennaio 2014Giulio Angioni
In Sardegna si è legiferato e sperato molto sulla cultura sarda e sul destino del sardo, dando spesso un’enfasi totalizzante al problema linguistico. L’avevano già fatto in Provenza, in Bretagna, in Tirolo, in Friuli, in Corsica, nelle regioni storiche britanniche e spagnole e in molti altri luoghi. Dovunque senza i grandi e rapidi risultati sperati, compresa persino la Catalogna: feste poetiche, premi letterari, raduni folkloristici, convegni di studio specialistici e no, toponomastica in parlate locali, insegnamento scolastico con risultati più o meno deludenti. L’idea era ed è che le lingue locali (magari unificate) possano e debbano servire alla normale comunicazione pubblica e privata, finora loro negata da ligue egemoni spesso di provenienza esterna.
Anche in questi tempi grami il destino del sardo rimane cosa seria, se non altro perché occupa non poche menti e scalda molti cuori. In Sardegna oggi c’è più accortezza di quando, decenni addietro, dominava il sardo, bisognava imparare l’italiano e si credeva che l’italiano guadagnasse dalla repressione del sardo, in vista di un inserimento collettivo e individuale nella compagine italiana. Oggi invece non è rara l’idea che conoscere più lingue, specie se locali, è meglio per la conoscenza di tutte e di ognuna, che il plurilinguismo non è un guaio ma un’opportunità, e che non è nemmeno cosa difficile, dato che anche lo scemo del paese è bilingue in un paese di bilingui. Un guaio è anche che spesso si dimentica che, comunque si parli, rimane più importante ciò che si dice.
Se oggi l’italiano è usato normalmente da tutti i sardi, è partendo anche da questa novità che bisogna preoccuparsi delle altre parlate della Sardegna. Ciò troppo spesso è accaduto in modi inadatti, paventando letali influenze e ibridazioni, imponendo unificazioni, trascurando il dato che l’italiano in Sardegna è già un italiano sardo inconfondibile per pronuncia, lessico, sintassi e stile oggi anche letterario, che unifica linguisticamente tutti i sardi forse per la prima volta nei millenni, rendendo meno urgente e non indispensabile l’ufficializzazione di una qualche forma di sardo, come è accaduto in tutta la storia della decolonizzazione rispetto alle lingue dei colonizzatori.
La fine delle nostre parlate è dunque inevitabile, come la fine dei modi di mangiare di vestire e di abitare, su cui da noi si piange molto meno? Comunque sia, è giusto che tutto ciò non accada senza di noi, pur sapendo che anche le lingue hanno tendenze incoercibili: lo sanno a loro spese i puristi, come sempre e dovunque anche qui malati di ortografia e di etimologia e nemici dell’influsso tra le lingue. Mentre i più ingenui riciclano slogan come che a salvare il sardo si salva tutto e che se si perde il sardo si perde tutto. E certi politici credono, o fingono di credere in campagna elettorale, che ciò che non si ottiene altrimenti, si ottiene per decreto, seguiti da entusiasti più o meno pasticcioni, da incapaci, da profittatori, ignari o incuranti dei prezzi da pagare, dei tempi e modi e delle forze in campo. Mentre c’è sempre chi accusa di lesa sardità chi non pasticcia e non profitta con la politica o con l’ingegneria linguistiche.
Già, politica e ingegneria linguistiche da noi negli ultimi due decenni si sono quasi sempre ispirate a un unitarismo ottecentesco sabaudo, quando non inconsciamente mussoliniano, armato di decretazione tetragona quando non anche squadristica, puntellato dal sottinteso che, giusto o sbagliato, la patria sarda soprattuttoe parlante in limba. Cosa che anche da noi, e non solo in Padania, piace a una silenziosa e sorniona maggioranza, sempre disposta ad applaudire dichiarazioni sardiste che non costano niente, salvano l’anima e sono pure moda, come le proclamazioni vuote che il sardo è una lingua e non un dialetto.
Purtroppo niente, e nemmeno le lingue durano per sempre, tanto meno quelle subalterne e dei piccoli popoli. A evitarlo, finora non c’è mai stata una decretazione risolutiva. Ma se nemmeno i piccoli popoli si rassegnano alla scomparsa delle loro lingue e di altri aspetti dei loro modi di vivere, qui da noi oggi si impone l’ipotesi che la causa del sardo come lingua ufficiale delle relazioni pubbliche sia già una causa persa, anche per errori recenti di attivisti e politici che ora si muovono come Pilato, buttando su altri la responsabilità di non riuscire a fare ciò che essi si limitano a proclamare. E in effetti è possibile che non ci sia in Sardegna una volontà generale abbastanza forte per compiere un’impresa così ardua, molto più ardua e costosa, sempre e dovunque, di quanto non immaginano il consiglio e la giunta regionali sarde, e soprattutto molto più ardua e costosa di quanto non immagina a volte qualche militante del sardismo linguistico, poco accorto e informato delle difficoltà da affrontare al di là dei proclami, mentre quasi nessuno si mostra capace di suscitare e reclutare le forze, ma quasi solo di individuare nemici rei di tradimento, di scarso sardismo, di esterofilia linguistica e di altre vergogne. C’è anche chi individua il nemico del sardo nelle università sarde e in altre istituzioni ufficiali del sapere, dove invece non mancano né gli ideatori di politiche linguistiche improbabili, né i complici del burocratismo regionale, del foraggiamento al folklorismo deteriore, dell’improvvisazione, e dove non mancano nemmeno le prefiche della sardità vilipesa dalla matrigna Italia e dai sardi servi.
Eppure, in tema di consapevolezza della situazione linguistica, le cose in Sardegna stanno molto meglio di ieri, quando chi aveva voce in capitolo auspicava più italiano e meno sardo. Il sardo allora era dominante e si poneva il problema di apprendere l’italiano, ma erroneamente pensavano che l’italiano avesse da guadagnare dall’indebolimento (e a scuola dalla repressione) del sardo.
Bisogna puntare sul fatto che oggi non è rara la consapevolezza che il plurilinguismo è un vantaggio, un arricchimento; e che è un’occasione per un recupero di coscienza storica e sociale di ciò che siamo, siamo stati e vogliamo essere in futuro, oltre che utile a una conoscenza più profonda delle parlate disponibili.
Ora che si affievoliscono le speranze generate dalla legislazione regionale sarda, specie di quella dei tempi della giunta Soru (e generate anche dalla legislazione nazionale italiana e comunitaria europea in fatto di lingue minoritarie), ora ci vuole calma e riflessione, anche per evitare che la delusione sia distruttiva di ogni fattività, specialmente quando si faranno i conti e ne risulteranno bruscolini pagati a suon di milioni di euro. Ora bisogna riflettere e guardarsi intorno a come le cose sono andate qui e altrove, per non chiamarsi fuori accusando la pochezza di noi sardi, accusati al solito di essere incapaci e disuniti, come già riaccade. È successo e succede di solito altrove in casi simili al nostro che si sia ottenuto poco, oltre i proclami, gli slanci patriottici, i circoli di irriducibili e gli atti di fede. Proclami e atti di fede forse qui da noi sono ancora necessari, come supporto sentimentale in questi momenti di ripensamento, rifiutando finalmente almeno la trita sindrome del complotto antisardo. E ci si decida magari a considerare un valore il pluralismo linguistico ancora esistente in Sardegna, coltivandolo ciascuno come meglio può.
17 Gennaio 2014 alle 13:40
Perfettamente d’accordo, mi ha toccato un punto in particolare la lingua è solo il mezzo per comunicare. Io sono un comunicatore e mi appassiona la ricerca della comunicazione su diversi canali anche non verbali, e comprendo molto bene il tentativo delle minoranze di emergere, ma utilizzando i canali politici che purtroppo sono corrotti da un’insieme di aspetti che poco hanno a che vedere con il pluralismo e la libertà di espressione infarciti da slogan e luoghi comuni, non tendenti al miglioramento culturale, conservatori della superficialità.
Simone