Vivere l’emergenza sanitaria: come l’ “ottimizzazione” può oscurare il rapporto umano
1 Settembre 2019[Aldo Lotta]
Tra i tanti luoghi occasionali di incontro tra persone, luoghi mondani, istituzionali o connotati dal timbro molto attuale del mercato, spiccano per il loro intenso ed emotivo significato esistenziale, quegli spazi in cui si incrociano, si sfiorano, percorsi di vita segnati dalla sofferenza, fisica o mentale.
Penso, tra l’altro alle carceri, ai luoghi di cura, o ai centri che, con sigle nel tempo cangianti ma sempre inquietanti, raccolgono i rifugiati, i “migranti”. Spazi materiali, strutture in cui la persona reca le angosce, il dolore, la percezione di un corpo, il proprio, e non solo il fisico o solo la mente, non più funzionale agli scopi e ai desideri, ma ferito, mutilato, a volte ingombrante e inadeguato. In questi spazi, inevitabilmente, lo sguardo (ma tutti i sensi) vorrebbe cogliere segnali e sfumature che indichino aiuto, calore, apertura, comprensione.
Ma ancora di più è l’incontro con gli operatori, quelle persone, altre, che rendono appunto operative, e quindi vive, quelle strutture, ad essere investito da aspettative, timori, speranze, direi quasi struggenti per il loro significato umanissimo. Così un detenuto che si trova rinchiuso in una cella nuda e fredda, priva di rimandi familiari, sarà oltremodo ripagato da un rapporto rispettoso, fondato sul riconoscimento della propria persona, da parte di una guardia carceraria. E un rifugiato o un profugo, scampato a torture, lutti e penose deprivazioni, potrà tentare di ricostruire se stesso attraverso la fiducia del, e nel, prossimo, quindi nel futuro, grazie all’ascolto e alla mediazione dell’operatore del luogo di accoglienza.
Sono riflessioni scaturite da una esperienza, che ho voluto fermare nella mente riportandola in forma scritta. Esperienza forse banale e, quindi, poco significativa per qualcuno , ma che mi sembra emblematica di un’attualità culturale, in un tempo e in un luogo in cui la riduzione delle “risorse umane” sanitarie, per esempio, fa sì che esse siano oltremodo sacrificate, e mortificate, a scapito della dignità e diritti della persona assistita, in nome delle, a me per niente chiare, esigenze di “semplificazione” e “ottimizzazione”.
Mi trovo in una sala d’attesa di un pronto soccorso cittadino, dove vengono accolti i pazienti “barellati” (trasportati dalle autoambulanze del 118). La sala, rettangolare, è estremamente scarna, fornita di un accesso per le lettighe provenienti dalle autoambulanze da un lato e da un altro, opposto, a parte l’ingresso dell’unico bagno, le porte scorrevoli per l’accesso alla postazione per il “triage” e al reparto vero e proprio. Ho modo di cogliere nell’arco di oltre otto ore (quanto attenderà la sua visita mia mamma , 96 anni, cardiopatica, fortemente ipotesa, reduce da episodi sincopali e trasportata “in codice giallo”) le più sottili sfumature percettive e le risonanze emotive di uno dei luoghi simbolo del nostro sistema sanitario pubblico.
Sto in piedi, accanto al letto di mia mamma, per tutto il tempo dell’attesa (le poche sedie in dotazione sono impegnate). Alcuni paravento non riescono a creare una minima parvenza di privacy, tanto che assisto ai lamenti, alle grida, ai continui e a volte inutili richiami rivolti al personale, impegnato nella sala del triage.
Un uomo di mezza età, durante l’attesa, viene colto da convulsioni, evento che gli consentirà un ingresso immediato in reparto per degli approfondimenti, immagino, neurologici. Una signora si torce per ore in preda a verosimili coliche renali, mentre un paziente molto robusto è in preda ad accessi continui di tosse violenta con abbondante espettorato. I teli di carta, intrisi del suo muco, vengono gettati al suolo, dove resteranno per tutta la giornata.
Nel frattempo, una signora anziana, presumibilmente affetta da Alzheimer, ed evidentemente portata lì dopo essere stata sorpresa, nel suo vano e rischioso vagabondare, dai soccorritori del 118, attende che arrivino dei familiari per riportarla a casa. Ma non ha pace, e tenta ripetutamente “l’evasione”. In effetti manca, nella sala, la figura dell’Operatore Sanitario, per cui sono quasi sempre dei volontari del soccorso a recuperarla, spesso in extremis. Alla fine sarà determinante l’intervento di una familiare di un’altra degente. Una semplice conversazione e l’offerta di un biscotto e di una bottiglietta d’acqua avrà l’effetto “miracoloso” di consentire alla signora di attendere con fiducia l’arrivo dei nipoti.
Osservo mia mamma: mi rendo conto che vive una condizione di coscienza anomala, crepuscolare, per cui è, in apparenza, poco attenta a ciò che le succede intorno, anche se è visibilmente angosciata e smarrita. Purtroppo ha bisogno di andare spesso in bagno e, non essendoci, appunto, nessun operatore sanitario disponibile, sono costretto ad accompagnarla personalmente, da solo, rischiando in alcune occasioni di vedermela scivolare tra le braccia.
Dopo tante ore, gli argomenti per distrarla scarseggiano, anche per la mia stanchezza (aggravata ovviamente dall’ipoglicemia), e così trascorriamo lunghi periodi di silenzio.
Intorno alle 20, finalmente, si spalanca la porta del reparto anche per lei. Viene portata in una stanza dove un medico segue tre pazienti separati dal solito paravento. Insisto inutilmente per poter assistere alla visita, dal momento che con me ho importanti documenti informativi sui precedenti anamnestici e sul suo attuale stato clinico. Nel chiudermi fuori dalla stanza mi si spiega che avrò modo di parlare col medico (e di mostrare la documentazione!) solo dopo la visita. Un’ora dopo mi si concede di entrare ma solo per “controllarla per il rischio che si possa alzare da sola dal letto”.
In tale occasione, verifico che il medico non ha alcun bisogno di parlare con me, mentre mia mamma è agitata, molto angosciata e con uno struggente vissuto di persecuzione. Immagino che durante la visita non abbia potuto stabilire un reale rapporto umano e cerco di spiegarle il contesto che sta vivendo. Purtroppo mi rendo subito conto che anch’io sono coinvolto nel suo vissuto persecutorio avendola “lasciata sola”, “abbandonandola” nelle mani di una persona, il medico, da lei percepita come ostile e aggressiva. Mentre attendo l’esito delle analisi, preoccupato, chiamo al telefono mio nipote, neurologo di riferimento di mia mamma. Lui si, per fortuna, accorrendo prontamente da casa, riesce a tranquillizzare la nonna. Così, in accordo con i colleghi del Pronto soccorso, pur non essendo ancora pervenuto l’esito dei prelievi, alle 9,30 la riaccompagno presso la residenza per anziani, dove ritrova l’usuale calore e affetto (che rappresenta l’irrinunciabile presupposto per ogni intervento clinico e terapeutico).
Continuerà a mostrare,tuttavia, per molti giorni successivi, come conseguenza dello stress, una consistente destabilizzazione psicologica ed emotiva, espressa da confusione e disorientamento.
Ho inviato una sommaria descrizione della mia esperienza all’Ufficio Relazioni col Pubblico dell’Ospedale. Una mail non polemica o rivendicativa, anzi più che rispettosa, verso i singoli operatori. Ma improntata a senso di stupore e tristezza di fronte a quanto di disumano e mortificante rischia sempre più di prevalere nei nostri luoghi dell’emergenza sanitaria.
Spazi relazionali profondamente oscuri, dove percorsi di vita che si dovrebbero incontrare attraverso uno scambio comunicativo completo (visivo, verbale, emozionale, esperienziale), costituiscono, in gran parte, incontri mancati. L’impiego dei codici multicolori, della diagnostica per immagini, delle analisi ematiche sempre più sofisticate, può essere enormemente salvifico ma, perché lo sia davvero, non può prescindere da un contatto umano, semplice ma totale: capace e autenticamente professionale.