Vogliono uccidere i pastori sardi
2 Gennaio 2025[Francesco Casula]
Carsicamente nella storia della Sardegna emerge il tentativo di “uccidere” il pastore sardo. Proprio in queste settimane si sta mettendo in discussione la pastorizia isolana.
È infatti in atto il rischio che nel territorio sardo vengano introdotte “pecore straniere” delle razze Lacon (francesi) e Assaf (israeliane). Si tratta in buona sostanza di “pecore mucca”, destinate alla sola produzione in stalla, con un quantitativo di latte sicuramente molto più alto ma che stravolgerebbero e annienterebbero la qualità del latte prodotto dalla razza sarda, legata storicamente ai nostri pascoli.
E allora addio alle qualità organolettiche del pecorino sardo e addio alle caratteristiche essenziali della Denominazione Protetta. E insieme addio al pastoralismo sardo, come storicamente lo abbiamo conosciuto.
A volere le “pecore straniere” sono, come sempre, lobby potentati e multinazionali. Avvertono i nostri pastori:”Non siamo disposti a mettere a rischio il nostro futuro per l’avidità di pochi che vorrebbero sfruttare il momento favorevole per inondare il mercato di pecorino romano prodotto con latte di razze estere importate. Siamo pronti a organizzare nuove forme di protesta”.
Sono convinto che anche questo tentativo di liquidare i pastori sardi, sarà respinto: come lo sono stati i reiterati tentativi storici del passato.
Dalla legge delle Chiudende all’industria di Ottana
Uno dei tentativi più brutali fu rappresentato dagli Editti delle Chiudende che –scrive il compianto Eliseo Spiga (in La Sardità come utopia -Note di un cospiratore) irruppero sulle comunità, implacabili come un castigo di dio. In un ciclonico turbinio di inaudite illegalità, sopraffazioni e violenze, di persecuzioni,assassini, carcerazioni e torture…furono chiusi migliaia di ettari dei migliori terreni privati e comunali, pascoli e seminativi, case, ovili e orti familiari, strade e ponti, abbeveratoi e fonti pubbliche.
I più danneggiati furono i pastori, abituati a pascolare le greggi in vasti spazi aperti e comuni ed ora costretti a pagare il fitto – spesso erosissimo – ai nuovi proprietari usurpatori.
Un altro momento e snodo storico di attacco violento soprattutto alle condizioni di vita e di lavoro dei pastori fu rappresentato dalla guerra doganale dello Stato italiano con la Francia, culminata con la rottura dei Trattati doganali nel 1887. L’economia sarda fu colpita a morte. Fino a quel momento la spedizione verso i mercati francesi di alcuni fondamentali prodotti dell’economia sarda aveva, se non scongiurato, almeno contribuito ad allontanare la crisi che gli spiriti più consapevoli paventavano.
Dopo i fatti del 1887 l’agro-pastorizia dell’Isola, privata d’un colpo dei suoi mercati tradizionali, precipitò al fondo di un baratro senza precedenti, costringendo i pastori a dipendere ancor di più dai proprietari dei pascoli, i printzipales, e dagli industriali caseari continentali ma soprattutto romani. Che Antonio Simon Mossa, il grande teorico dell’indipendentismo e del federalismo sardo chiama “feudatari del latte”, che si comportano da veri e propri strozzini, imponendo solo loro il prezzo. Tanto che uno degli obiettivi del neonato Partito sardo d’azione nel 1921 sarà proprio la battaglia contro sos meres continentales de su latte e la creazione di cooperative di pastori, per gestire loro, in prima persona, il prodotto del proprio lavoro.
Un altro tentativo, che avrebbe dovuto essere anche quello decisivo per assestare il colpo definitivo e mortale all’esistenza stessa dei pastori, risale alla fine degli anni ’60 quando, soprattutto con l’industrializzazione di Ottana, con il pretesto della lotta al banditismo, si portarono “le industrie a bocca di bandito” (Antonello Satta): con esse si voleva trasformare la Sardegna in tanti Sesto San Giovanni, con il pastore che, liberato finalmente di gambali, mastruche e bertulas, avrebbe vestito la tuta dell’operaio.
In realtà “lo scopo del Kolossal mistificatorio” –scrive ancora Eliseo Spiga, nel saggio già citato, con la solita e affilata prosa – “era di concorrere ad assestare un colpo definitivo alla cultura sarda e a quella barbaricina in particolare. Doveva concorrere a realizzare l’obiettivo finale dell’intervento economico dello Stato che, secondo il Ministro Taviani, in visita a Ottana, era quello di “eliminare quell’assetto tradizionale che si è consolidato con gli attuali rapporti di produzione al fine di distruggere definitivamente il malessere proprio della società e dell’etica pastorali, quel malessere cioè sul quale allignano i ben noti fenomeni criminali delle zone interne della Sardegna”.
Conosciamo tutti com’è andata a finire. La cosiddetta Rinascita, tutta giocata sulle illusioni programmatorie e sull’industrializzazione, segnatamente quella petrolchimica, tradendo le aspirazioni e le speranze del popolo sardo, non solo si è evaporata, ma si è rovesciata nella realtà del sottosviluppo, della dipendenza e nella involuzione ai limiti della tolleranza.
Un ultimo tentativo vi è stato negli anni scorsi, quando l’intero comparto fu investito da una gravissima crisi con il latte sottopagato, i mangimi quadruplicati insieme alle’energia elettrica e al gasolio.
Superata anche quella crisi oggi, dicevo, sono le “pecore straniere” ad attanagliare e stritolare il pastore sardo. Ma, ne son certo, anche questa volta canes de istergiu e argas de muntonargiu non prevalebunt!